Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano 

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cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo,
staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: «Ecco, sta
fermo, io ti sparo, io t uccido» è un altra. È assoluta-
mente un altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere
un uomo è un altra cosa. Uccidere un uomo, cosí, è as-
sassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse
logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non spara-
vo. In me s erano formate due coscienze, due individua-
lità, una ostile all altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sa-
rai tu che ucciderai un uomo, cosí!»
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in
grado di rifare l esame di quel processo psicologico. V è
un salto che io, oggi, non vedo piú chiaramente. E mi
chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io
pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso
non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile
poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si
stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli
dissi, a fior di labbra:
 Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo. Tu, vuoi?
Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
 Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distri-
buito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l imbrunire, il battaglione di rincalzo ci
dette il cambio.
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Letteratura italiana Einaudi
Emilio Lussu - Un anno sull Altipiano
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Le operazioni sembravano aver subito, per ordini su-
periori, un arresto. Esse si sviluppavano in altri fronti,
sul Carso principalmente. Sull Altipiano, era ridiscesa la
calma. A metà settembre, la brigata fu mandata a riposo,
vicino a Foza, per quindici giorni. Ricevemmo finalmen-
te abiti e biancheria e ci rimettemmo a nuovo. Quei
quindici giorni passarono per tutti noi come quindici
notti. Non facemmo che dormire.
Ad ottobre, con l approssimarsi dell inverno, che in
alta montagna incomincia fin dall autunno, incomincia-
rono i turni di trincea, tetri e monotoni. Malgrado tutto,
non erano peggiori della vita che, ogni giorno e in tempi
normali, conducono milioni di minatori nei grandi baci-
ni minerari d Europa. Si aveva qualche ferito, raramente
un morto. Eccezionalmente, lo scoppio d un grosso cali-
bro o d una bombarda da trincea provocava una cata-
strofe, come lo scoppio del grisou in un pozzo. E la vita
riprendeva sempre eguale. Trincea, riposo, a un chilo-
metro, trincea. Il freddo, la neve, il ghiaccio, le valanghe
non rendono la guerra piú dura, per uomini validi. Sono
elementi che ben conoscono, in tempo di pace, quanti
vivono in alta montagna e nelle regioni dalla neve peren-
ne. La guerra, per la fanteria, è l assalto. Senza l assalto,
v è lavoro duro, non guerra.
Perciò, di tutti quei mesi, tutti eguali, io non solo non
ho un ricordo vago, ma nessun ricordo. Come degli anni
d infanzia passati in collegio. Debbo quindi saltare dei
mesi interi e fermarmi solo su degli episodi, anche di po-
chi minuti, che ho vissuto intensamente, e che sono an-
cora profondi nella mia memoria.
Il generale Leone, promosso a un comando superiore,
lasciò la divisione. Noi lo festeggiammo per una settima-
na. Il suo successore, generale Piccolomini, arrivò quan-
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do la brigata era in linea. Egli volle subito presentarsi al-
le sue truppe e visitare le trincee.
La mia compagnia era in linea, nello stesso settore di
destra. Un portaordini del comando di battaglione mi
preavvertí, ed io gli andai incontro. Il generale Leone
era spettrale e rigido, il nuovo generale ilare e saltellan-
te. Nel rapido confronto che feci tra i due, il generale
Piccolomini mi sembrò il migliore degli uomini.
Da dove ci venisse, non lo ricordo. Probabilmente
proveniva da una direzione di scuola militare, perché
aveva uno spirito pedagogico, portato al teorico. Mi at-
tendevo domande sui miei soldati, sui veterani, sul mo-
rale dei reparti, sulle trincee, sul nemico. Con un fare da
esaminatore, mi disse:
 Vediamo un po , tenente. Sentiamo come lei defini-
rebbe la vittoria. Intendo dire la nostra vittoria, la vitto-
ria militare.
Simile domanda mi cadeva imprevista. Abbozzai un
sorriso d intelligenza, un sorriso particolare a tutti quelli
che, non avendo capito niente, ma trovando inopportu-
no dire «io non ho capito, abbia la bontà di spiegarsi»,
sorridendo, vogliono far capire al loro interlocutore che
hanno capito, ma in modo cosí discreto che è come se
non avessero capito.
Il generale ripeté:
 La vittoria. Mi spiego o non mi spiego? Noi com-
battiamo per vincere o per perdere? Evidentemente, per
vincere.
 Naturalmente.
 Ebbene, l azione del vincere è la vittoria. Io deside-
rerei che lei mi definisse questa vittoria.
Ora avevo capito, anche troppo. E pensavo, non dico
con nostalgia, ma con minore terrore, al generale Leone
che, negli ultimi tempi, non s era piú fatto vedere e sem-
brava rinsavito.
Il generale insisteva: dovetti decidermi a rispondere:
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 Non saprei, signor generale. Il giureconsulto Paolo [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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